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HENRY & JUNE
(HENRY & JUNE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 novembre 1990
 
di Philip Kaufman, con Fred Ward, Uma Thurman, Maria de Medeiros, Richard E. Grant, Kevin Spacey (1990)
 
Anche senza cadere nel tranello dell'eterno bisticcio cinema -letteratura, mettere in scena i celebri diari di Anais Nin sui suoi incontri con Henry Miller nella Parigi degli anni Trenta significa pur sempre voler parlare di due scrittori.

Appassionata, eccessiva, generosa ma sincera, entusiasta e depressa, lei. Egocentrico, seduttore, talvolta interessato, ma innanzitutto preoccupato della propria carriera letteraria, lui. Romanzo d'amore, descrizione di una passione che scivola nel libertinaggio, cronaca di un'epoca, i diari sono però, prima di ogni altra cosa - e parrebbe quasi superfluo ricordarlo - la storia di due persone che passano la loro vita a scrivere. Come diceva Miller: "La sola idea di passare un giorno intero senza scrivere mi fa impazzire. Mai, mai riuscirò a recuperare il tempo perso". E come scriveva Anais: "Nel nostro centro vive uno scrittore, e non un essere umano".

Tradurre in immagini quest'esigenza - così come la meccanica di qualsiasi altro atto creativo - non è facile. Eppure, portando sullo schermo il romanzo di Kundera L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE, (e, precedentemente, quello di Tom Wolfe THE RIGHT STUFF) Philip Kaufman ci era riuscito perfettamente.

Come? Trovando - pure qui parrebbe lapalissiano - degli equivalenti visuali. La leggerezza, che è già ricordata nel bellissimo titolo di Kundera, nasceva da un modo di filmare disincantato, libero da ogni costrizione culturale o anche semplicemente geografica (la vicenda varcava i confini di mezza Europa), attento a quelle contrapposizioni - quasi musicali - sulle quali si costruiva il romanzo. L'erotismo - che già in quel film costituiva uno degli elementi principali - era quello che amiamo considerare innocente, perché filmato in allegria, quasi per gioco. E il film si significava, come poi sempre succede nel cinema che funziona, nel suo inserimento in un ambiente: persino la Svizzera, solitamente maltrattata a colpi di jodel ed orologi a cucù dai tempi di Orson Welles, ne usciva dignitosamente. E tutti ricorderanno come le giornate di Praga, filmate in miracoloso equilibrio tra finzione e documento, permeavano l'umore e la psicologia dei personaggi.

Tutto ciò che riusciva a Kaufman nei film precedenti sembrava insomma farne il regista di sogno per mettere in scena i giochi erotico-letterari di Henry e Anais, e dei due personaggi costantemente citati e raramente presenti (nel libro), la splendida moglie di Miller, June, ed Ugo, il marito discreto dell'autrice. Ed invece - per quell'insondabile efferatezza di un mezzo di creazione collettiva che così spesso sembra sfuggire di mano ai propri manipolatori - il sogno, per non dire del diario, rimangono nel cassetto.

Certo, il mestiere di uno dei più sensibili (dei più europei, anche) tra i registi americani non scompare come per incanto: tutto giocato sui primissimi piani (quelle bocche, quelle epidermidi sfiorate dalla camera, a fare del microcosmo dell'intimo il paesaggio macroscopico della fantasia), sul fruscio delle sete che sfocia nell'ambiguità delle trasparenze, lo sguardo del regista è di quelli raffinati. E la scelta degli attori, se scade purtroppo nel manicheismo per quella che riguarda la figura dell'autore di TROPICO DEL CANCRO (Fred Ward, con tanto di falsa calvizie, sembra Gepetto ed è una specie di zuzzerellone) è invece perfetta in quella dei suoi personaggi femminili. Non per nulla l'inquieta Maria de Medeiros, e la voluttuosa Uma Thurman finiscono per prendersi la fetta più importante - e sollazzevole - del film: quella che descrive la passione fra le due donne.

Passione sfrenata ma, si tranquillizzino coloro cui ancora preoccupa questo genere di cose, terribilmente soft: HENRY & JUNE è un film soft, ed è proprio questo uno dei suoi guai maggiori.

Soft è ovviamente il suo erotismo, che nei momenti peggiori assomiglia a quello vaselinato di David Hamilton. Soft è l'ambientazione, con la Parigi che gli americani si ostinano a ritenere incanagliata delle balere che ancora non avevano la carta di credito solo perché si era negli anni Trenta. Con il tango, i ballerini coi baffetti, i prestidigitatori e le maschere per le strade alla Carné - Prevert. E la tenutaria del bordello che s'infila i cento franchi nella giarrettiera, prima di mettersi a ricamare canticchiando La Vie en Rose.

Soft è la rabbia. E la rabbia può difficilmente essere soft: come quella di Miller, che picchia indefesso sulla sua Remington, e che dovrebbe indicarci la sua febbre, di creare e di vivere. Ma che sta invece benone. Assai meglio, comunque, del suo film.

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